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Semilibertà ai boss mafiosi: l’allarme sul sistema penitenziario

La semilibertà concessa a mafiosi come Vito Brusca e Girolamo Buccafusca, detenuti nel carcere di Pagliarelli a Palermo, ha riacceso il dibattito sulla gestione dei benefici penitenziari per i condannati all’ergastolo. Entrambi lasciano la prigione ogni giorno per svolgere attività di volontariato, rientrando la sera, ma le loro vicende rappresentano solo la punta dell’iceberg di un fenomeno sempre più frequente.

Il procuratore aggiunto della Direzione Distrettuale Antimafia di Catania, Sebastiano Ardita, in un intervista rilasciata a Repubblica ha lanciato un allarme: “Troppo spesso, la buona condotta del mafioso viene decretata con una lettura burocratica del comportamento tenuto in carcere.” Questa tendenza, aggiunge, ha trasformato i benefici penitenziari da un’eccezione a una possibilità concreta per molti detenuti, grazie a un sistema che sottovaluta il pericolo rappresentato dai boss irriducibili. Dopo le stragi di mafia del 1992, i benefici per i mafiosi non pentiti erano stati bloccati, ma una sentenza della Corte Costituzionale del 2019 ha aperto una breccia, dichiarando illegittimo il meccanismo automatico di esclusione. Questa decisione, pur ribadendo che la concessione dovesse restare eccezionale, ha permesso di rimettere la valutazione nelle mani dei giudici. Tuttavia, quella che era nata come una possibilità limitata si è trasformata in una pratica sempre più diffusa, con pronunce che abbassano progressivamente il livello di rigore richiesto.

Il ritorno in libertà di mafiosi di peso è un rischio concreto. I capimafia irriducibili, come sottolinea Ardita, sono i depositari di un metodo che ha garantito il controllo del territorio e la capacità di condizionare lo Stato. In un contesto già segnato dalla presenza di altri scarcerati eccellenti, il rischio che possano riprendere il comando è alto, soprattutto considerando che i legami con l’organizzazione spesso non vengono realmente spezzati. A ciò si aggiunge la capacità dei detenuti di comunicare con l’esterno tramite strumenti tecnologici o gerarchie consolidate dentro il carcere.

La valutazione della “buona condotta” diventa così un concetto fragile, facilmente manipolabile. Per Ardita, le attuali condizioni carcerarie hanno alterato l’equilibrio tra la civiltà della pena e la prevenzione. Queste concessioni non solo indeboliscono il sistema antimafia, ma rischiano di tradire la memoria delle vittime e il lavoro svolto per combattere la criminalità organizzata.

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Redazione