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Papa Francesco, incendio di tenerezza: l’eredità viva di un pontefice rivoluzionario

Papa Francesco non era semplicemente un pontefice: era un incendio di tenerezza che illuminava i margini del mondo. Jorge Mario Bergoglio è nato  il 17 dicembre 1936 in un quartiere popolare di Buenos Aires, imparò presto che il Vangelo non profuma di incenso ma di strada. Ordinato sacerdote nel 1969, vescovo nel 1992 e cardinale nel 2001 per volontà di Giovanni Paolo II, fu eletto il 13 marzo 2013, primo papa gesuita e primo latino‑americano della storia.

Con quel «Buonasera» pronunciato dal loggione di San Pietro, aprì una stagione segnata da gesti che parlavano più forte delle encicliche: rifiutò gli appartamenti pontifici per un semplice alloggio in Casa Santa Marta, scelse la berlina più spartana del garage vaticano, impose l’olio del buon samaritano – economico, per tutti – al posto dell’aromatico nardo usato nei riti solenni. Voleva dire al pianeta che il potere cristiano è servizio e che la sobrietà è la grammatica della gioia.

Da quel momento il suo magistero prese la forma di un pellegrinaggio incessante verso le periferie. A Lampedusa, di fronte al Mediterraneo trasformato in cimitero liquido, lanciò in mare una corona di fiori domandando: «Chi ha pianto per questi fratelli?». Quei fiori ancora galleggiano nella coscienza europea. In seguito, sulle banchine di Lesbo, abbracciò rifugiati che non avevano più né terra né futuro, ricordando che «il cristiano non costruisce mura ma ponti». La stessa urgenza lo spinse nella sporcizia di un carcere minorile, dove lavò i piedi a un giovane musulmano: rito antico reso scandalo gioioso, parabola vivente della misericordia che scardina barriere religiose e sociali.

Il suo coraggio pastorale trovò una sintesi nell’enciclica Laudato Si’, non un documento ma un canto ferito per la sorella Terra. Davanti agli indigeni amazzonici cacciati dalle miniere illegali pianse e sentenziò che «ferire il creato è bestemmiare il Creatore». Da allora il lessico climatico della Chiesa cambiò: peccato non significò più solo disobbedienza personale, ma anche devastazione collettiva. Parallelamente, la riforma della Curia – faticosa, osteggiata – mise al centro i poveri prima dei palazzi, la trasparenza prima degli equilibri di potere. Bergoglio parlava di «una Chiesa dal cuore di madre», senza portoni blindati né contabilità cinica, pronta a sentirsi ospedale da campo dove disinfettare ferite prima ancora di compilare cartelle cliniche dottrinali.

Per i fedeli in crisi con la morale sessuale rivendicò il primato della coscienza accompagnata, non giudicata. Ai divorziati risposati spalancò vie sacramentali; alle persone LGBTQ+ ricordò che «Dio ti ama così come sei»; ai confessori disse che il confessionale non è una camera di tortura ma il luogo in cui il padre corre incontro al figlio. Nei conflitti planetari si fece scudo umano: in Sud Sudan baciò i piedi ai leader armati, in Ucraina strinse un giubbotto antiproiettile insanguinato di bambino, in Iraq pregò nella piana di Ur insieme a ebrei e musulmani, reclamando fraternità abramitica contro ogni fondamentalismo. I suoi appelli contro il commercio d’armi furono sferzate all’economia di morte; le sue telefonate notturne a famiglie disperate rivelarono un pastore incapace di delegare la compassione.

La cifra di Bergoglio fu la misericordia, ma una misericordia muscolare, fatta di carne e sudore più che di parole levigate. Diceva che la Chiesa deve «profumare di pecora» e che non bisogna avere paura di «sporcarsi le mani». Nel Giubileo Straordinario del 2016 volle Porte Sante nelle carceri, negli ospedali, nei campi profughi: sacramento itinerante che portava l’assoluzione dove la colpa pesava di più. In ogni viaggio apostolico, accanto ai discorsi ufficiali, c’era sempre il fuori programma: un bambino malato da stringere, una nonna da ascoltare, un catechista sconosciuto da ringraziare. Erano parabole viventi che valevano più di ogni omelia.

Con la sua morte si chiude un decennio in cui il papato ha dismesso la porpora per rivestirsi di grembiule. Resta un’eredità di fuoco: l’esortazione a ribellarsi alla cultura dello scarto, l’invito a «vivere un concerto di compassione», la certezza che il perdono è la più rivoluzionaria delle energie. Bergoglio non ha lasciato un monumento, ma braci ardenti: tocca a noi custodirle, soffiarvi sopra, lasciarci bruciare. Perché, come ripeteva, «la fede non è un museo ma la danza di un cuore in fiamme».

Adesso, la Chiesa cattolica si trova a un bivio storico: scegliere chi guiderà il prossimo capitolo del cammino universale. Il Conclave, riunione segreta di cardinali elettori, sarà chiamato a eleggere il nuovo Pontefice seguendo una procedura consolidata: dopo la chiusura e la benedizione delle porte della Cappella Sistina (“Extra omnes!”), ogni giornata prevede fino a quattro scrutini – due al mattino e due al pomeriggio – con votazioni a scheda segreta. Per risultare eletto, il candidato deve ottenere la maggioranza qualificata di due terzi dei voti più uno. Se, dopo venti scrutini, nessuno raggiunge la soglia necessaria, il rito contempla una sospensione dei lavori e prevede, se necessario, una riduzione del numero di voti richiesti, fino a giungere a un’elezione per semplice maggioranza. Ad ogni scrutinio, le schede bruciate nel camino della Cappella danno il segno: fumo nero per il nulla di fatto, fumo bianco quando una volta raggiunto il quorum un nuovo Vescovo di Roma è nominato.

Nel dibattito sui possibili successori di Bergoglio compaiono, ancora una volta, alcuni nomi che negli ultimi anni sono stati indicati come “papabili”, ciascuno con pregi e sfide da affrontare:

Tra i più esperti di Curia emerge il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano fin dal 2013. La sua lunga esperienza diplomatica – cruciale in delicate mediazioni, come quella con la Cina – parla di pragmatismo e conoscenza profonda delle istituzioni, ma lo pone al centro dell’establishment, un tratto che potrebbe frenare chi preme per un’ulteriore spinta riformatrice.

Dal cuore dell’Asia, invece, propone la sua candidatura il filippino Luis Antonio Tagle, l’ex prefetto per l’Evangelizzazione dei Popoli amato dai giovani e dalle comunità non occidentali. Il suo approccio umile e vicinissimo allo stile pastorale di Francesco gli conferisce un’enorme carica simbolica, benché il peso numerico dei cardinali asiatici resti ancora limitato nel Collegio elettorale.

In Europa, il cardinale Christoph Schönborn di Vienna unisce alla profonda formazione teologica una propensione al dialogo con la modernità: fu tra i primi ad aprire il dibattito sull’accoglienza dei divorziati risposati. Ciononostante, i suoi quasi ottant’anni e alcuni legami con la dolorosa vicenda degli abusi in Austria potrebbero pesare sul suo profilo.

Restando in Italia, accreditano posizioni di rilievo il vescovo di Bologna, cardinale Matteo Zuppi, volto amico delle periferie esistenziali e presidente della Conferenza Episcopale Italiana, e il prefetto delle Cause dei Santi Marcello Semeraro, considerato uno dei fedelissimi del pontificato uscente. Zuppi incarna la Chiesa “in uscita”, capace di parlare ai non credenti, mentre Semeraro conosce alla perfezione gli ingranaggi della Curia, ma rischia di restare un volto poco noto fuori dalle mura vaticane.

Dall’Africa potrebbero arrivare sorprese: il ghanese Peter Turkson, primo africano alla guida del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano, con la sua voce autorevole su ecologia e migranti, rappresenta un continente in rapida crescita ecclesiale. Sul fronte progressista latinoamericano, spicca il nome dell’honduregno Óscar Rodríguez Maradiaga, critico del capitalismo selvaggio e coordinatore del Consiglio dei Cardinali, benché la sua immagine sia stata offuscata da accuse di mala gestione.

A completare il quadro restano figure più conservatrici, come il guineano Robert Sarah, noto per il suo attaccamento alle forme liturgiche tradizionali: il suo profilo, però, appare poco compatibile con la linea di continuità voluta dal conclave post‑Francesco.

Non va esclusa l’ipotesi di un “outsider”: la storia insegna che, così come Jorge Mario Bergoglio spiazzò il mondo nel 2013, anche questa volta potrebbe prevalere un candidato di compromesso, magari proveniente da altre regioni in crescita come l’Africa subsahariana o il Nord America.

Qualunque sarà la scelta, il nuovo Papa si troverà ad affrontare sfide immense: unire in un unico abbraccio conservatori e progressisti, proseguire la lotta contro gli abusi sessuali, bilanciare il declino della fede in Occidente con l’espansione della Chiesa nel Sud del mondo, mantenere la voce profetica sui temi dell’ambiente e della pace. Dopo l’impresa riformatrice di Francesco, il successore dovrà farsi “artigiano di unità” in un’epoca di spinte centrifughe, con la stessa audacia di chi, un decennio fa, pronunziò quel semplice, ma poderoso: “Buonasera”.

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Published by
Alfio Musarra