foto archivio San Berillo
Nel cuore ferito di San Berillo, dove le strade dissestate raccontano di abbandoni e attese sospese, il silenzio cala profondo quando Marcella Trimarchi prende la parola. Abitante storica del quartiere e parte attiva della comunità della parrocchia del Crocifisso della Buona Morte, Marcella commenta la settima stazione della Via Crucis: Gesù cade per la seconda volta. «Cade anche per me» dice, la voce rotta dall’emozione. «Per me, che in quanto donna trans negli anni Settanta ho subito umiliazioni, soprusi, discriminazioni». Ricorda l’emarginazione, l’allontanamento dalla famiglia, la fuga a Milano, la derisione condivisa con tanti amici omosessuali e trans. Eppure, nonostante tutto, ha trovato mani tese e affetto vero. «Prego per chi è umiliato, solo, senza conforto. Prego perché trovino forza nella croce di Cristo, che non abbandona mai. Sono sola, ma sono qui, con voi, e ringrazio il Signore e voi, sorelle e fratelli».
Le voci degli abitanti di San Berillo diventano il cuore pulsante di questa Via Crucis comunitaria, guidata dall’arcivescovo Luigi Renna e dal parroco Piero Belluso. Il cammino inizia nell’ex piazza delle Belle, oggi intitolata a Goliarda Sapienza, e si snoda tra deviazioni forzate dovute ai cantieri lasciati a metà, simbolo visibile di una città dimenticata. A portare la croce si alternano in molti: soprattutto giovani segnati da difficoltà e percorsi di giustizia, che in questo gesto trovano riscatto e condivisione. Ogni stazione è affidata a chi opera nel margine: suore, volontari, centri di accoglienza, movimenti, comunità religiose, cittadini. Le riflessioni sono dense di attualità e dolore condiviso.
La condanna di Gesù parla del potere, ma anche del tradimento del popolo. La sua derisione racconta la solitudine che lacera più di ogni ferita. La seconda caduta diventa specchio delle nostre fragilità, monito a non voltarsi dall’altra parte, a restare umani davanti a chi chiede asilo, accoglienza, ascolto. Nel volto della madre che incontra il figlio, il silenzio si fa parola. È il silenzio degli sguardi dei volontari che rassicurano chi ha perso tutto: “Tranquillo, sono qui”. Il Cireneo, costretto a portare la croce di un “malfattore”, diventa emblema del peso inaspettato della vita e della solidarietà che ci rende fratelli. Veronica, che asciuga il volto di Gesù, ci ricorda che quel volto lo incontriamo ogni giorno: nei vicini, negli sconosciuti, nei disperati.
Gesù spogliato delle vesti è l’umanità denudata del suo diritto alla dignità: la popolazione di Gaza, i migranti respinti, i poveri e i giovani privati dei servizi essenziali. Maria, che assiste alla morte del figlio, è la madre di ogni vittima di guerra, di ogni figlio spezzato dalla violenza e dall’ingiustizia. E infine, la croce. Il simbolo ultimo della fragilità e della speranza. La morte di Gesù non è fine, ma passaggio. Come ricorda l’imam Abdelhafid Kheit, «nell’Islam la morte è un ritorno nelle mani del Generoso».
«Questa Via Crucis – ha detto l’arcivescovo Renna – è una via della speranza. Non si chiude in una tomba, ma in una tomba vuota. Cristo è risorto». E con Lui, forse, anche le periferie abbandonate e le vite spezzate possono tornare a sperare.