«La storia del riformismo amministrativo, nel nostro Paese, è una storia di ‘vinti’. Dall’Unità d’Italia in poi gli statisti e i governi sono dovuti venire a patti con gli alti funzionari dello Stato, neanche a Mussolini è andata bene e ha dovuto fare i conti con i poteri interni della burocrazia. E in tutti i balzi in avanti che il Paese ha fatto l’amministrazione statale è stata assente, arretrata, si è dimostrata un presidio di retrovia a differenza di quanto avvenuto ad esempio in Francia. La Pa non si è comportata da classe dirigente, sebbene abbia avuto sempre il potere di contrattare qualunque spesa con governi e persino con dittatori, lasciando delle pesanti eredità anche per il presente e il futuro».
Affrontando in maniera approfondita il tema delle istituzioni italiane, è inevitabile scontrarsi con le ‘tare’ storiche legate alle questioni della pubblica amministrazione che, da un certo momento in poi, come ha rilevato il prof. Guido Melis, già docente di Storia dell’amministrazione pubblica nelle università di Sassari e Siena e alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. Melis è stato uno degli ospiti d’eccezione della seconda giornata del Festival delle Istituzioni, che si è tenuta sabato pomeriggio nell’odeion ‘Fiorenza Bonfiglio’ di Villa San Saverio, sede della Scuola Superiore di Catania, che ha organizzato il Festival insieme con la società editrice “Il Mulino”.
«Adesso però abbiamo la linea di demarcazione del maggio 2023, quando scadrà l’attuale legislatura – ha osservato il prof. Francesco Clementi, costituzionalista dell’Università di Perugia, intervistato con Melis dall’alumna Ssc Sara Bellucci -. Abbiamo bisogno di un rinnovato ‘nation building’, visto che la piemontesizzazione del Paese avviata da Cavour è storicamente fallita, e tutti i tentativi successivi non hanno avuto esito significativo. Anche per rispondere alla sfida del Pnrr, dobbiamo ricostruire il Paese giocando la partita di una sovranità più forte nel contesto europeo e rinsaldando le basi del modello democratico».
E’ toccato poi a Bernardo Sordi, docente di Storia del diritto medievale e moderno a Firenze, e Maria Rosaria Ferrarese, docente di Sociologia del diritto a Cagliari e nella Scuola Nazionale di amministrazione, mettere a fuoco gli aspetti controversi del rapporto tra istituzioni e potere, moderati da Marco Fisicaro. Rapporti, quelli tra diritto pubblico e diritto privato, che originano dalla Rivoluzione francese, evolvendosi in maniera diversa in ciascuno dei vari stati ottocenteschi, come ha ricordato Sordi, «ma che si sono configurati sempre come mondi fortemente differenziati, sebbene entrambi indispensabili alla società borghese». «Oggi il potere – ha aggiunto Ferrarese – non indossa più lo smoking o gli abiti severi che per il nostro immaginario erano stati tagliati sulle Istituzioni dall’immensa sartoria dello Stato. Ha cambiato ‘dress code’, potremmo dire: assume forme sempre più invisibili, sempre meno riconoscibili e identificabili, quindi incontrollabili. Lo scenario del potere è diventato molto affollato: prima solo gli Stati, oggi ci sono soggetti privati e poteri economici transnazionali».
Uno di questi poteri è senza dubbio l’Unione europea, della quale ha parlato il prof. Antonio Padoa Schioppa, emerito di Storia del diritto medievale e moderno alla Statale di Milano, introdotto da Maria Antonia Panascì. «L’Unione è nata negli anni ’50 del Novecento come potere superiore che intervenisse per dirimere i pacifici contrasti fra gli Stati, dopo le tragedie delle due Guerre mondiali – ha ricordato Padoa Schioppa -. Alcuni traguardi della sua azione sono tangibili, il passaggio dal mercato unico alla moneta unica, la crescita del tenore di vita in ciascuno degli Stati membri. Ma i vari trattati istitutivi conservano ancora dei limiti, in particolare la richiesta dell’unanimità nelle decisioni su alcune materie che ne pregiudicano l’efficacia. Solo le crisi riescono a far superare le ‘impasse’ e ad assumere decisioni efficaci e rapide: sarebbe quindi il momento opportuno per provvedere alla costituzione di un esercito unico di difesa, perché gli eventi attuali ci dimostrano che senza una propria difesa territoriale l’Europa non è libera».