“Quando facevo la sentinella a Vicolo Pipitone, nel nostro covo, fino a poco prima delle stragi del ’92, ricordo che venivano anche degli appartenenti alle istituzioni. Ricordo che c’era il maresciallo dei Carabinieri Sarzana, che era al libro paga della famiglia dell’Acquasanta. Era lui che ci avvisava delle cose che accadevano. Da noi veniva anche Giovanni Aiello ‘faccia da mostro’. E lo disse mio zio Giuseppe Galatolo a dire chi era e che lavorava per lo Stato. Ma finché non ho collaborato non sapevo chi fosse, lo chiamavamo ‘faccia da mostro’ perché ci faceva paura”.
A dirlo, proseguendo la deposizione al processo d’appello sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio, è il pentito di mafia Vito Galatolo. Giovanni Aiello era un ex poliziotto della Squadra Mobile di Palermo con passato nei servizi, conosciuto alle cronache come “Faccia da mostro” e finito al centro di alcune vicende controverse.
E’ morto d’infarto nel 2017. Aiello era stato iscritto nel 2015 nel registro degli indagati con i boss Gaetano Scotto e Salvino Madonia. Per i capi mafia la procura aveva chiesto l’archiviazione, ma il giudice respinse l’istanza ordinando nuove indagini tra le quali il confronto fra il padre della vittima e Aiello.
“Faccia da mostro”, funzionario dei servizi segreti in attività a Palermo negli anni Ottanta, fino alle grandi stragi del 1992, era stato riconosciuto nel febbraio del 2016 da Vincenzo Agostino, padre del poliziotto di Palermo, Antonino, ucciso con la moglie Ida Castellucci il 5 agosto del 1989.
“E’ lui, è quello che mi sta guardando”, avrebbe detto Agostino, che dal giorno dell’omicidio di suo figlio non si è mai più tagliato la barba. L’ex agente segreto sarebbe colui che prima del delitto sarebbe stato visto vicino alla sua abitazione. Uscendo Agostino confermò di averlo riconosciuto “anche se era ben truccato”.
Poi, Galatolo cita anche altri esponenti delle istituzioni che avrebbero frequentato la famiglia mafiosa dell’Acqusanta. “Veniva anche Bruno Contrada, Arnaldo La Barbera, nei primi anni ’90, ’91 e ’92, veniva spesso nella nostra borgata prima delle strage di via D’Amelio. Poi c’erano personaggi che venivano a cercare latitanti, venivano due poliziotti, tali Agostino e Piazza, che venivano a cercare chi entrava e usciva. Il nostro compito da sentinelle era avvisare e farli scappare”.
“Arnaldo La Barbera venne diverse volte in vicolo Pipitone a Palermo, quando mio zio Giuseppe Galatolo era agli arresti domiciliari. In due occasioni, mio zio Giuseppe si ritirò a parlare con La Barbera in uno scantinato. Veniva di sera e non di giorno. Una di queste volte è entrato nel vicolo e uno dei miei cugini gli ha fatto segnale di andare avanti ma lui fece capire che già sapeva dove doveva andare. Nella mia famiglia si diceva che La Barbera era uno che ‘mangiava peggio degli altri'”. Lo ha detto il pentito Vito Galatolo, proseguendo la deposizione al processo sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio. “La Barbera era a disposizione dell’Acquasanta e del mandamento dei Madonia”, prosegue.
“Nel 1991, dopo che Arnaldo La Barbera uccise il mio amico Mimmo Fasone nella rapina nel centro di bellezza, noi volevamo dargli un colpo di legno, volevamo punirlo ma fummo bloccati. Ci hanno mandato a dire di non pensarci completamente. Perché Madonia ci teneva a lui”.
Dice Vito Galatolo proseguendo la deposizione al processo. “Mi ricordo che Mimmo Fasone era un ragazzo in gamba. Tra il 22 e il 23 dicembre del ’91 ci eravamo scambiati gli auguri di Natale poi, ai primi di gennaio del ’92, successe questa cosa che fu ucciso dal dottor La Barbera”, dice Galatolo, in videocollegamento. All’epoca La Barbera era il dirigente della Squadra Mobile.
“Quando il giornale pubblicò la notizia che Arnaldo La Barbera aveva ucciso Mimmo Fasone ci fu tanta rabbia, perché comunque un ragazzo giovane era stato ucciso. E si cominciò a dire di ‘andare a rompere le corna’ a questo La Barbera’. Dicevamo ‘ma come si è permesso a uccidere questo ragazzo?’. Ma poi mio cugino Angelo e i miei zii disse che non si poteva fare perché Madonia teneva a lui”. Arnaldo La Barbera “era corrotto, ma non ho mai consegnato dei soldi a La Barbera perché non ho avuto modo di parlarci”. Lo ha detto il pentito Vito Galatolo.
“Nella casuzza di vicolo Pipitone sono stati commessi tantissimi omicidi. Ne venivano fatti diversi al giorno. Venivano da tutte le città a fare omicidi lì dentro”. Dice Vito Galatolo rispondendo alle domande dell’avvocato Giuseppe Panepinto, difensore del poliziotto Mario Bo, nel corso del controesame, Galatolo, ha ricordato i crimini commessi a vicolo Pipitone, all’Acquasanta, regno dei Galatolo a Palermo.
“Un giorno uno è entrato nello stesso scantinato dove La Barbera si vedeva con mio zio. Questo ci stava scappando e Salvo Madonia gli ha sparato là dentro. Poi è stato un certo Sirchia. Poi c’era gente che arrivava da diversi paesi che portavano persone che si uccidevano pure là. Era un viavai di persone”.