Carlo Alberto Dalla Chiesa: simbolo di speranza per i siciliani onesti

Carlo Alberto Dalla Chiesa rappresentò per i siciliani onesti la speranza di una lotta efficace contro la mafia, ma il 3 settembre 1982 venne ucciso da Cosa nostra in un contesto di isolamento istituzionale, insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente scelto della polizia di Stato, Domenico Russo. Sono trascorsi quarantadue anni da quel tragico giorno. Dalla Chiesa aveva già servito in Sicilia come ufficiale dei carabinieri dal 1949 ai primi anni ’50 e successivamente dal 1966 al 1973. Da generale, coordinò la lotta al terrorismo e venne nominato prefetto di Palermo dopo l’assassinio di Pio La Torre e Rosario Di Salvo, con l’obiettivo di fermare la violenza mafiosa. Tuttavia, nonostante le ripetute richieste, non gli furono mai concessi i poteri effettivi di coordinamento nella lotta a Cosa nostra. Il suo impegno durò cento giorni, caratterizzati da determinazione e solitudine, fino al tragico epilogo.

Nell’ultima intervista a Giorgio Bocca, il prefetto dichiarò: “Un uomo viene colpito quando viene lasciato solo”. Il pubblico ministero Nico Gozzo, nella sua requisitoria, descrisse il delitto come maturato in un clima di solitudine: “Carlo Alberto Dalla Chiesa fu catapultato in terra di Sicilia nelle condizioni meno idonee per apparire l’espressione di una effettiva e corale volontà dello Stato di porre fine al fenomeno mafioso”. Secondo il magistrato, questo abbandono rese inevitabile l’omicidio: “Cosa nostra ritenne di poterlo colpire impunemente perché impersonava soltanto se stesso e non già, come avrebbe dovuto essere, l’autorità dello Stato”.

I capi della mafia erano già stati condannati nel Maxiprocesso, nato anche grazie a un rapporto di Dalla Chiesa contro 162 esponenti di Cosa nostra, rafforzato dalle testimonianze di pentiti come Tommaso Buscetta, Totuccio Contorno e Francesco Marino Mannoia. Nato a Saluzzo (Cuneo) il 27 settembre 1920, Dalla Chiesa tornò a Palermo con procedura d’urgenza dopo aver combattuto la malavita al Nord, la mafia siciliana e le Brigate Rosse. Arrivò a Palermo la sera del 30 aprile 1982, poco dopo l’uccisione di Pio La Torre, terzo politico assassinato in pochi mesi, dopo Piersanti Mattarella, presidente della Regione siciliana, e Michele Reina, segretario della Democrazia Cristiana palermitana. Durante i suoi cento giorni a Palermo, però, non ottenne quei poteri speciali richiesti più volte invano.

Quel venerdì di 42 anni fa sembrò davvero “morta la speranza dei palermitani onesti”, come scrisse un cittadino su un lenzuolo nel luogo della strage. Durante i funerali, il cardinale Salvatore Pappalardo tuonò dall’altare con le parole di Tito Livio: “Dum Romae consulitur… Saguntum espugnatur. Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata, e questa volta non è Sagunto, ma Palermo! Povera Palermo nostra”.

I mandanti e alcuni esecutori dell’assassinio furono condannati all’ergastolo. Tuttavia, come affermò l’ex procuratore antimafia Pietro Grasso, “per gli omicidi eccellenti bisogna pensare a mandanti eccellenti”. La ricerca di questi mandanti non ha fatto significativi passi avanti, e l’unica verità giudiziaria risiede nelle condanne dei sicari e dei vertici di Cosa nostra, tra cui Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco e Pippo Calò. Nel 2002, la Corte d’Assise, condannando all’ergastolo i killer Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo e Nino Madonia, sottolineò le “ampie zone d’ombra” riguardanti le modalità con cui il generale fu mandato in Sicilia per combattere la mafia e i possibili interessi all’interno delle stesse istituzioni favorevoli all’eliminazione di un uomo determinato e capace come Dalla Chiesa.