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Sentenza, trattativa Stato-mafia: “v’erano indicibili ragioni di ‘interesse nazionale”

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"non sconvolgere gli equilibri di potere interni a Cosa Nostra che sancivano l'egemonia di Provenzano e della sua strategia dell'invisibilità"

“Esclusa qualsiasi ipotesi di collusione con i mafiosi, se Mori e Subranni potevano avere interesse a preservare la libertà di Provenzano, ciò ben poteva essere motivato dal convincimento che la leadership di Provenzano, meglio di qualsiasi ipotetico e improbabile patto, avrebbe di fatto garantito contro il rischio del prevalere di pulsioni stragiste o di un ritorno alla linea dura di contrapposizione violenta allo Stato”. Lo scrive la corte d’assise d’appello nella sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia sostenendo che i carabinieri avrebbero voluto “favorire la latitanza di Provenzano in modo soft”.

“V’erano dunque indicibili ragioni di ‘interesse nazionale’ a non sconvolgere gli equilibri di potere interni a Cosa Nostra che sancivano l’egemonia di Provenzano e della sua strategia dell’invisibilità o della sommersione, – spiegano – almeno fino a che fosse stata questa la linea imposta a tutta l’organizzazione. Un superiore interesse spingeva ad essere alleati del proprio nemico per contrastare un nemico ancora più pericoloso”.

“Ecco perché, il R.O.S., lungi dal disinteressarsi delle indagini mirate alla cattura di Provenzano, ne avrebbe fatto, apparentemente, un obbiettivo prioritario del proprio impegno investigativo in Sicilia, finendo per acquisire una sorta di monopolio di quelle indagini. Conoscere la rete di favoreggiatori era essenziale per potere esercitare comunque una pressione sul boss corleonese, e alimentare in lui la consapevolezza che i Carabinieri avessero la possibilità e la capacità di porre fine alla sua latitanza, e tuttavia non l’avrebbero fatto finché vi fosse stata una convenienza in tal senso”, aggiungono.

“Insomma, si voleva ‘proteggere’ Provenzano, ossia favorirne la latitanza in modo soft, e cioè limitandosi ad avocare a sé vari filoni d’indagine che potevano portarne alla cattura, ma avendo cura al contempo di non portare fino in fondo le attività investigative quando si fosse troppo vicini all’obbiettivo; ma tutto ciò non già perché, in caso di trasgressione di un fantomatico patto, l’altro contraente, avrebbe riattivato lo stragismo, bensì perché la caduta di Provenzano che avrebbe inevitabilmente fatto seguito ad un suo arresto, avrebbe favorito il riemergere delle pulsioni stragiste mai del tutto sopite in Cosa Nostra”.

“Sorprende che, sebbene l’operazione Ciancimino fosse nata, loro dire, con lo scopo precipuo di saperne di più sulle strategie criminali di Cosa Nostra acquisire da una fonte ritenuta credibile, per suo stesso spessore mafioso, informazioni utili ad individuare catturare responsabili delle stragi più pericolosi latitanti mafiosi in circolazione contando proprio sul legame di Ciancimino con suoi ”compaesani” non una sola domanda fu fatta, per tutto il corso della seconda fase della collaborazione che avevano instaurato, sul conto di Bernardo Provenzano”.

Scrivono i giudici della Corte d’assise d’appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza sulla trattativa Stato-mafia. “Lo sconcerto ancora maggiore se considera che Ciancimino si era detto disponibile a cooperare senza più remore supposti criminale, invitando (De Donno ndr) a dirgli cosa volessero da lui”. “Ora, nulla da obbiettare sulla scelta di assumere come obbiettivo prioritario la cattura del latitante mafioso, cioè Salvatore Riina. Ma non comprende come tale scelta impedisse, contestualmente al lavoro di ricerca sulle mappe sulla documentazione richiesta da Ciancimino, di compulsare quest’ultimo per avere notizie utili alle indagini anche nei riguardi dell’altro corleonese, accreditato peraltro, all’esito del primo maxi processo, di essere dell’organizzazione mafiosa. A meno che ed alloro che tutto avrebbe una spiegazione plausibile due obbiettivi non fossero tra loro incompatibili”.

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