Sentenza, “Montante sostenuto da settori politici e istituzioni”
Antonello Montante non voleva fare emergere pubblicamente i suoi rapporti con la famiglia Arnone, ritenuta vicina a Cosa nostra. Lo scrivono i giudici della corte d’appello nella sentenza, depositata 500 giorni dopo la lettura del dispositivo, sul “sistema Montante”, con il quale l’ex leader di Sicindustria, ed ex responsabile legalità di Confindustria nazionale, Antonello Montante è stato condannato a 8 anni.
“Si può dare per certo – scrivono – che Montante aveva intrattenuto rapporti di familiarità e di affari con la famiglia Arnone. Sebbene sul punto Montante non abbia mai fatto specifiche ammissioni sull’esistenza e sulla natura di questi rapporti e sebbene allo stato degli atti non vi sono nelle contestazioni da valutare imputazioni che prefigurino che questi rapporti siano trascesi nell’illecito penale, ciò che conta ai fini del presente del giudizio è che Montante aveva cercato in ogni modo di evitare che essi emergessero e fossero sottoposti alla pubblica opinione”.
“Anzi riteneva che chi si adoperava per farlo doveva considerarsi parte di un sodalizio a lui avverso, che mirava ad impedirgli il conseguimento dei suoi obiettivi”.
“Il 15 giugno 2012 veniva nominato direttore dell’Aisi il generale Esposito con il quale Montante aveva un solido rapporto tale da trovare nei servizi un canale di informazioni sulle indagini a suo carico”. Lo scrivono i giudici d’appello nella sentenza che condanna Calogero Montante.
“Montante aveva attivato la sua rete di complici che gli consentivano di accedere alle banche dati della polizia per ottenere informazioni”. Scrivono i giudici. “Il primo appartenente a questa rete – si legge – era Diego De Simone Perricone, già appartenente alla polizia di Stato, assunto dalla “Aedificatio Spa”, su segnalazione di Montante, società che svolgeva servizi di sicurezza in favore di Confindustria nazionale. Di Simone Perricone, che non poteva più accedere alla banca dati si serviva di Marco De Angelis, in servizio alla Squadra Mobile di Palermo”.
Secondo i giudici “molti dei dati rinvenuti nella ‘stanza segreta’ dell’abitazione di Montante provenivano da questa attività di accesso illecito”. Gli accessi “venivano effettuati da Salvatore Graceffa, vicesovrintendente della Polizia di Stato, alle quali le richieste pervenivano da De Angelis”. Montante si legge ancora nella sentenza “raccoglieva informazioni e le custodiva riservandosene l’uso”, “ciò era noto nella sua cerchia e tra le persone a lui vicine, l’uso che ne avrebbe potuto fare era chiaro”. E ancora, scrivono i giudici “plurime fonti riferiscono che egli si vantava di avere a disposizione dossier, pronti all’uso”.
Antonello Montante conservava “i messaggi scambiati con numerose personalita’ istituzionali, giornalisti, influenti professionisti ed operatori economici. La finalita’ di queste dettagliate e certosine annotazioni doveva considerarsi di tipo ricattatorio”. Secondo l’accusa Montante avrebbe compiuto attivita’ di dossieraggio per colpire gli avversari e avrebbe condizionato la politica regionale”.
“Emerge – scrive la Corte – la predilezione per l’uso di utenze fisse dei rispettivi uffici per sottrarre le comunicazioni a possibili intercettazioni”. Montante “annotava messaggi, telefonate e curricula. Faceva delle cartelle separate con delle sigle a seconda che la segnalazione circa la persona da assumere, promuovere o comunque valutare per possibili desiderati impieghi fosse pervenuta per telefono o con un messaggio”.
Inoltre, “era riuscito ad assumere una posizione di potere in Confindustria, grazie al suo prospettato impegno antimafia, dissimulando la sua pregressa vicinanza alle cosche locali, accusando invece di tali connivenze coloro che avevano gia’ dei ruoli nelle organizzazioni imprenditoriali o nelle societa’ partecipate dalla Regione siciliana”.
“Il grave stato depressivo” di Antonello Montante è stato uno degli elementi su cui la difesa dell’ex leader di Confindustria Sicilia, rappresentata dagli avvocati Carlo Taormina e Giuseppe Panepinto, ha fatto leva per accertare la capacità dell’imputato di partecipare coscientemente in giudizio. Il giudice, come si legge nella sentenza d’appello depositata oggi, ha ritenuto che le patologie “accertate non pregiudicassero la capacita dell’imputato di partecipare al giudizio”.